21 Gr di Turismo: Paolo Iabichino - Intervista
Comunicare (sostenibilità, storytelling e registri)
Come promesso, ecco la prima intervista fatta durante Hicon, l’evento sull’innovazione nel turismo.
Quando mi ha dato il benvenuto il Ceo di Teamwork, Mauro Santinato, tra il serio e il faceto, gli ho chiesto quale fosse il senso di una giornata come Hicon.
Tra il serio e il faceto a sua volta, mi ha risposto che è un evento per non impolverarsi, per non rimanere nei nostri gusci comodi, perché l’evoluzione è uno smottamento continuo sotto i nostri piedi.
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Ma veniamo a noi, per questa intervista ho parlato con Paolo Iabichino.
È scrittore pubblicitario, direttore creativo, fondatore dell’Osservatorio Civic Brands con Ipsos Italia, Maestro alla Scuola Holden. Si occupa di creatività e nuovi linguaggi nella costruzione di contenuti.
La nostra chiacchierata è partita proprio dal suo intervento, durante il quale ha portato molte riflessioni su come viene raccontata la sostenibilità.
RACCONTARE LA SOSTENIBILITÀ
(D.) Hai parlato di iper-narrazione della sostenibilità fatta per cose che sostenibili non sono.
Esatto. La sostenibilità è sempre stata necessaria: erano temi fondamentali già dodici anni fa, oggi non sono più importanti solo perché li abbiamo in agenda.
Ad esempio, ho letto di una compagnia di crociere che parla di slow tourism, e questo già fa un po’ ridere. Nel loro comunicato stampa hanno detto che per essere sostenibili si sarebbero fermati cinque giorni in ogni destinazione.
Ecco, queste sono iper-narrazioni di cose che sostenibili non sono.
(D.) Di recente anch’io ho letto di una crociera di lusso in Antartide che si professa sostenibile.
Non possiamo raccontare come tali cose che per definizione non sono sostenibili. Nel nostro racconto dovremmo avere l’onestà intellettuale di chiamare le cose con il loro nome.
In questo caso, la cosa migliore sarebbe abbacinare i propri pubblici raccontando quello che queste esperienze sono: prodotti straordinari per gente ricca alla quale non interessa la sostenibilità.
Paradossalmente, le cose più sostenibili non si raccontano come tali, perché vengono riconosciute da un pubblico che ha a cuore quel tipo di esperienza.
(D.) Viviamo immersi negli eccessi retorici quindi?
Sì, mimetizziamo le cose dietro degli eccessi retorici, già parlare di slow tourism lo è.
Il turismo ha obbedito alle regole di tutte le industrie: crescita, crescita, crescita. Quello che succede alle attività commerciali e al territorio, spesso non ci interessa.
(D.) A proposito di interesse verso il territorio e di quello che è sostenibile, hai parlato di due importanti opportunità.
La prima è la sfida post pandemica: fare tesoro di quello che il lockdown e la pandemia ci hanno lasciato, ma qui sono abbastanza pessimista.
La seconda è la nuova generazione di consumo: incline alla sostenibilità, che non è solo ambiente. Hanno valori diversi, per loro la sostenibilità è un prerequisito.
Ad esempio, possiamo dire che non gli interesserà andare in crociera. Questo perché sanno bene qual è il costo che comporta per il territorio.
(D.) Qualcuno potrebbe obiettare che tra i giovani ci sono anche persone che comprano fast fashion e ascoltano trap. Non proprio un inno alla sostenibilità.
Be’, loro probabilmente andranno in crociera!
COMUNICAZIONE
Adesso vorrei chiederti un paio di cose in qualità di esperto di comunicazione.
(D.) C’è chi dice che lo storytelling sia morto perché ormai l’attenzione è troppo frammenta. Cosa ne pensi?
Falso. Guarda il successo dei podcast, non potresti spiegartelo se dietro non ci fosse ancora la voglia di informarsi, cercare, approfondire.
C’è bisogno di intelligenza autoriale: il problema non è il destinatario, il problema è la sorgente.
Se metti delle schifezze in circolazione, non puoi dare la colpa alla soglia dell’attenzione.
(D.) Lo stesso vale per la comunicazione pubblicitaria e commerciale?
Certo.
(D.) Un’ultima domanda legata all’uso delle parole. Nel turismo il modo di comunicare spesso è molto rigido, pensa al lusso. Che consigli ti senti di dare?
Il rischio di dare dei consigli è quello di creare dei modelli.
Invece, nell’uso del linguaggio bisogna essere responsabili in prima persona. Il lusso ha un registro, è vero, ma quel registro può essere personalizzato, interiorizzato e, perché no, maltrattato.
Molto dipende, ancora una volta, dalla sorgente.
Il linguaggio deve comunicare dei valori, delle tensioni, dei credi. Nel momento in cui costruiamo dei paletti semantici all’interno dei quali muoverci, snaturiamo la sua identità.
Per questo, alla fine, il lusso finisce per obbedire al registro del lusso. Ma Armani obbedisce al registro del lusso o ha creato un registro proprietario?
Il linguaggio è identità, quindi, se hai dei valori e delle radici, il registro diventa un veicolo autentico. Se non hai i primi usi solo un registro, ma quel linguaggio non è distintivo.
(D.) Per cui ognuno dovrebbe provare ad avere un suo linguaggio.
Secondo me, sì.
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